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Il bullo e il bullismo

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Dott.ssa Monica Vivona

Definizione e etimologia del bullismo:

“E’ malvagio. Quando uno piange, egli ride. Provoca tutti i più deboli di lui, e quando fa a pugni, s’inferocisce e tira a far male. Non teme nulla, ride in faccia al maestro, ruba quando può, nega con una faccia invetriata, è sempre in lite con qualcheduno. Egli odia la scuola, odia i compagni, odia il maestro”. Così Edmondo de Amicis ci dipinge il “bullo” Franti nel libro Cuore.

Ma chi è il bullo? Cercando i sinonimi del termine troviamo: delinquentello, giovinastro, bravaccio, smargiasso, teppista, borioso, gradasso, sbruffone, spaccone, vanaglorioso, ragazzaccio, malandrino, vandalo.

Nonostante non si trovi nei dizionari storici, “bullo” è una parola antica che risale al Rinascimento. Tommaso Garzoni, erudito nato a Bagnacavallo, la usò in una sua opera, “La piazza universale di tutte le professioni del mondo” pubblicata a Venezia nel 1585. In quest’opera, il termine bullo era affiancato a «bravazzi, spadaccini e sgherri di piazza».

Il primo a registrare questo termine in un dizionario è Alfredo Panzini: lo definisce voce romanesca che sta per “smargiasso, bravaccio, teppista”.

Il significato della parola dunque si associa all’inizio ad un’idea di violenza organizzata e ad un concetto di isolamento ed estraneità, di prevaricazione e di prepotenza.

Poi nel Novecento il significato si attenua: indica per lo più soltanto un giovane arrogante.
Non solo. Nel secolo scorso si trova in letteratura, con Pier Paolo Pasolini, persino un vezzeggiativo: bulletto di provincia.

La definizione di bullo in Italia ha un’accezione che stempera la gravità della violenza e sopraffazione che vuole denunciare. Il bullo, nel senso comune, è il gradasso, quello che si dà delle arie, ma che non necessariamente prevarica gli altri, anzi spesso il termine “bullo, bulletto” ha un’accezione positiva, di affettuosa presa in giro. E’ però necessario mettere da parte questo significato per comprendere il problema: il bullo è un ragazzo o una ragazza che compie degli atti di prepotenza verso un proprio pari sfruttando il fatto di essergli in qualche modo superiore, queste prepotenze non sono occasionali, ma si ripetono nel tempo, configurandosi come una vera e propria persecuzione.

Caratteristiche del bullismo: 

Fare il bullo significa dominare i più deboli con atteggiamenti aggressivi e prepotenti, sottoporre a continue angherie e soprusi i compagni di classe o di giochi fisicamente e caratterialmente più indifesi.

Citiamo la definizione di Dan Olweus: uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato, quando viene esposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o di più compagni”.(Olweus, 1996).

Il bullismo può essere considerato una sottocategoria del comportamento aggressivo, con alcune caratteristiche distintintive: l’intenzionalità (mira deliberatamente a ferire, offendere, arrecare danno o disagio); la persistenza nel tempo, l’asimmetria di potere (nella relazione, il bullo è più forte e la vittima è più debole e spesso incapace di difendersi).

Il bullismo può assumere forme differenti:
– fisiche: colpire con pugni o calci, appropriarsi, o rovinare, gli effetti personali di qualcuno;
– verbali: deridere, insultare, offendere, minacciare, prendere in giro ripetutamente, fare affermazioni discriminanti;
– indirette: diffondere pettegolezzi e calunnie, diffamare, escludere qualcuno dal gruppo di aggregazione.

Chi è il bullo? Ci sono due diverse tipologie:

  • bullo dominante, le cui caratteristiche sono: aggressività generalizzata sia verso gli adulti sia verso i coetanei, impulsività e scarsa empatia verso gli altri, questi bambini vantano la loro superiorità, vera o presunta, si arrabbiano facilmente e presentano una bassa tolleranza alla frustrazione, hanno un atteggiamento positivo verso la violenza, poiché è ritenuta uno strumento positivo per raggiungere i propri obiettivi.

La loro prepotenza non è dovuta ad insicurezza e scarsa autostima, al contrario si tratta di bambini sicuri di sé, con elevate abilità sociali, capaci di istigare gli altri. Hanno buone doti psicologiche utilizzate però al fine di manipolare la situazione a proprio vantaggio, con forte bisogno di dominare gli altri. Manifestano grosse difficoltà nel rispettare le regole e nel tollerare contrarietà e frustrazioni. Tentano, a volte, di trarre vantaggio anche utilizzando l’inganno. Il rendimento scolastico è vario ma tende ad abbassarsi con l’aumentare dell’età e, parallelamente a questa, si manifesta un atteggiamento negativo verso la scuola.

Il bullo, sempre alla ricerca di emozioni forti, estreme, deumanizza la vittima al fine di giustificare le sue forme di aggressività e di violenza e stabilisce con gli altri rapporti interpersonali improntati quasi sempre sulla prevaricazione.

Attraverso una ricerca focalizzata sulla capacità dei soggetti coinvolti in episodi di bullismo (bulli e vittime) di riconoscere le emozioni altrui, si è constatato che la condizione di entrambi appare legata a difficoltà nel riconoscimento delle emozioni. Per i bulli, si riscontra una generale immaturità nel riconoscere le emozioni, soprattutto la felicità. Entrambi gli attori risultano “sgrammaticati” in una competenza fondamentale che è quella che permette di cogliere i segnali emotivi che provengono dagli altri.

  • bullo gregario: più ansioso, insicuro, poco popolare, cerca la propria identità e l’affermazione nel gruppo attraverso il ruolo di aiutante o sostenitore del bullo.

Chi è la vittima?

Le caratteristiche della vittima sono: scarsa autostima e opinione negativa di sé, i bambini vittimizzati sono ansiosi e insicuri, spesso cauti, sensibili e calmi. Se attaccati, reagiscono chiudendosi in se stessi. Queste caratteristiche sono tipiche delle vittime definite passive o sottomesse, che segnalano agli altri l’incapacità, l’impossibilità o difficoltà di reagire di fronte ai soprusi. Esiste, tuttavia, un altro gruppo di vittime: le vittime provocatrici, caratterizzate da una combinazione di modalità di reazione ansiose e aggressive. Possono essere iperattivi, inquieti e offensivi. Tendono a controbattere e hanno la tendenza a prevaricare i compagni più deboli.

Per le vittime si evidenziano deficit nel riconoscimento di specifici segnali emotivi, in particolare relativi alla rabbia. Da un lato tali difficoltà potrebbero impedire al bambino di riconoscere l’altro come potenziale aggressore e quindi di difendersi, e dall’altro lato, l’incapacità di leggere tale emozione potrebbe ostacolare il controllo del proprio comportamento e favorire l’utilizzo di modalità che finiscono con il provocare ulteriormente la rabbia dell’altro.

Le conseguenze: 

Essere vittima o essere prepotente ed esserlo a lungo nel corso del tempo può rappresentare un fattore di rischio. Gli studi longitudinali, già messi in atto da Olweus e altri, rivelano che chi rimane a lungo nel ruolo di prepotente corre più rischi di altri di entrare in quella escalation di violenza che va da piccoli episodi di vandalismo, furti, piccola criminalità, fino a incorrere in problemi seri con la legge. Questi bambini hanno quindi più probabilità da adulti di venire condannati per comportamenti antisociali.

Per contro chi rimane a lungo nel ruolo di vittima rischia di andare incontro a livelli di autostima sempre più bassi (“non valgo nulla”, “non sono capace di far nulla”, “gli altri ce l’hanno tutti con me”), a forme di depressione che possono aggravarsi sempre di più, fino a diventare forme di autolesionismo con conseguenze estreme come il suicidio.

Il bullismo non è un fenomeno che riguarda soltanto il bullo e la vittima: tutto il gruppo dei pari ne è coinvolto e ognuno ha un ruolo: 

I coetanei hanno un ruolo importante nello sviluppo, mantenimento o modificazione del comportamento aggressivo nel gruppo. Il bullo non agisce da solo: alcuni compagni svolgono un ruolo di rinforzo, altri formano un pubblico che incita e sostiene, altri ancora si disinteressano a quello che accade, non manca poi chi tenta di opporsi alle prepotenze per proteggere la vittima, in questo ruolo di difesa si trovano spesso le bambine.

Meccanismi psicologici nel gruppo di pari:

Il bullismo è quindi un fenomeno di gruppo ed è utile per comprenderlo fare riferimento ai meccanismi che caratterizzano coloro i quali prendono parte all’azione aggressiva.

Innanzitutto alcuni studi hanno dimostrato che l’individuo agisce aggressivamente se ha osservato qualcun altro agire in tal modo (un modello), soprattutto se questo altro gode della stima dell’osservatore, ed è riconosciuto come forte e coraggioso. Coloro i quali sono molto influenzati da tali modelli sono soprattutto i ragazzi più insicuri e dipendenti, che non hanno un ruolo definito fra i pari e che vorrebbero affermarsi.

Vi è un altro fattore che interviene in tale contesto di gruppo, cioè la diminuzione del senso di responsabilità individuale. La diffusione di responsabilità all’interno del gruppo è un meccanismo che rende più facile l’azione aggressiva, poiché il senso di responsabilità personale nei confronti dell’azione negativa è minore se si partecipa in tanti.

Prendiamo ora in considerazione i meccanismi di disimpegno morale elaborati da Bandura, cioè le strategie cognitive con cui i ragazzi giustificano le loro aggressioni. Le forme di disimpegno morale possono strutturarsi, stabilizzarsi e quindi diventare un modello per il soggetto, che in qualche maniera lo svincolano da regole e norme.

Una tra le forme di disimpegno morale individuata da Bandura è l’“etichettamento eufemistico”, ed è la modalità attraverso cui il ragazzo definisce positivamente un comportamento negativo (“stavamo scherzando”), in modo da far capire che non aveva intenzioni negative.

Ci sono, inoltre, due forme di disimpegno morale legate alla vittima. La prima modalità è la “deumanizzazione della vittima”, la psicologia ha evidenziato come noi abbiamo una propensione naturale e fisiologica a non esercitare violenza nei confronti dei nostri simili se li consideriamo tali. Possiamo, però, renderli non più nostri simili (la vittima quindi “non è un essere umano, si merita di essere trattata in quel modo”), così si nega loro il principio di umanità. L’altro viene degradato ad essere non umano, ad essere inferiore. Nel mondo della scuola questo può avvenire perché ci sono alcuni soggetti che si prestano ad essere svalutati, perché le loro caratteristiche individuali, forse problematiche sotto alcuni aspetti, possono favorire e incrementare questi atteggiamenti da parte dei compagni. La deumanizzazione della vittima favorisce quindi la violenza e rende meno grave l’atto compiuto.
L’altra modalità molto frequente e diffusa di disimpegno morale è la “colpevolizzazione della vittima” rispetto al comportamento violento che è stato esercitato nei suoi confronti (“mi ha provocato”), è una modalità di disimpegno morale molto frequente perché culturalmente si ritiene che se ad una persona è successo qualcosa di negativo in qualche modo se lo è meritato.

Infine citiamo la teoria del “capro espiatorio”, che sembra adeguata a descrivere il ruolo della vittima nel fenomeno del bullismo. In questo caso, i comportamenti aggressivi diretti verso la vittima, sarebbero espressione di meccanismi difensivi come spostamento e proiezione, così le tendenze aggressive che non possono essere dirette verso il loro obiettivo naturale, sono spostate su una vittima innocente e meno pericolosa, alla quale vengono attribuite caratteristiche stereotipate negative.

Perché il bullo ha i suoi fidati gregari e il gruppo facilmente si uniforma e accetta di diventare complice, in modo passivo o attivo, delle sue prepotenze?

Questo comportamento da parte dei componenti del gruppo risponde a delle finalità auto protettive sotto due aspetti. Primo, limita la possibilità che quel soggetto diventi personalmente vittima del bullo. Secondo, l’identificazione con l’aggressore crea l’illusione di essere personalmente potenti e non indifesi. Non si tratta, quindi, del riconoscimento della leadership del bullo da parte dei coetanei, ma piuttosto questi saranno disposti ad accettare i suoi modi, poiché combattuti tra amore e timore per lui. Questo rappresenta però una grave minaccia per il benessere del gruppo.

Conclusione: 

In una cultura dove dominano i “Franti” di De Amicis, in cui l’autoaffermazione passa per la scissione degli individui tra forti e deboli, una cultura lontana dalla valorizzazione degli aspetti prosociali del comportamento, vale la pena impegnarsi affinché i nostri ragazzi possano crescere in un clima di educazione affettiva e di promozione di armoniche relazioni sociali.

Cosa si può fare? 

La paura di essere spodestati, di perdere il proprio ruolo, la gelosia, sono reazioni piuttosto naturali, diffuse, specialmente nello sviluppo, quando ci sono tante conquiste da fare: un’identità da costruire, uno spazio da crearsi, una posizione da acquisire all’interno dei gruppi di riferimento (la famiglia, la classe); specialmente in queste fasi dello sviluppo, dove il proprio ruolo è ancora in parte da definire, è facile percepire come minaccioso qualsiasi tentativo di intrusione. Il bisogno di ferire l’altro minacciandolo o deridendolo è un modo di esprimere l’aggressività che ha trovato largo spazio nella storia dell’umanità, facendosi largo all’interno della cultura.

In quest’ambito la scuola dovrebbe svolgere un ruolo importante in senso positivo, aiutando il bambino ad avere una buona sicurezza, il che comporta la sua valorizzazione e l’apprezzamento delle qualità positive personali. La sicurezza si rinforza e si costruisce in un contesto relazionale che offra l’opportunità di esprimere se stessi e le proprie capacità. La valorizzazione aiuta il bambino ad avere fiducia in se stesso consentendogli di superare senza timore e aggressività difensiva, gli ostacoli, gli insuccessi, le frustrazioni.

Per contro, un’educazione autoritaria, ponendosi come un’educazione frustrante e punitiva che limita il bambino nel raggiungimento degli obiettivi e nella realizzazione di sé, è fautrice di atteggiamenti di risposta di tipo aggressivo. Svalutare un bambino punendolo, non serve ad evitare il ripetersi dell’azione indesiderata e significa provocare indirettamente comportamenti aggressivi di tipo difensivo.

Questo non significa che la scuola e la famiglia non debbano porre limiti al bambino, infatti la sicurezza in sé si stabilisce nel progressivo incontro con le difficoltà commisurate alle proprie possibilità. Significa, invece, che il modello educativo che suscita comportamenti meno aggressivi non è né autoritario, né aggressivo, ma autorevole, che non evita ostacoli e punizioni, e lo fa in un clima di affetto e valorizzazione.

E’ importante osservare e lavorare il prima possibile su comportamenti aggressivi e di prevaricazione, perché la violenza è un’abitudine che è molto difficile da destrutturare quando si organizza in maniera forte. Quindi è importante intervenire, altrimenti l’aggressività diventa una modalità che poi si trasforma e può impedire ai ragazzi di sviluppare competenze prosociali, emozioni, empatia, comunicazione assertiva, tutte quelle emozioni sociali che servono per crescere armonicamente come individuo tra gli altri e conquistare i rapporti interpersonali.

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